… Parole… parole… parole… Fiumi di parole si fondono in mari di altre parole, come acqua che si mischia con acqua; parole a formare frasi pronunciate da facce senza calore nè umanità; discorsi poco invitanti, poco confortanti: abbattono il desiderio, l’attenzione, la curiosità, la creatività. Parole poco rassicuranti che non danno certezze, prive di speranza, che annichiliscono, che invitano alla passività. Il nostro destino in mano ad altri.
Lui le ascolta poco attento, elettroencefalogramma piatto, mentre in mutande aspetta che esca il caffè, sempre pigro, dalla moka. La luce fredda del mattino non lo aiuta a metabolizzare gli inviti al buon senso, all’obbligo camuffato da obbedienza. Beve il caffè, poco zucchero, gli piace così, ma mai amaro come i notiziari; preferisce le informazioni meteo.
Si prepara ad affrontare la giornata. Apre sportelli e cassetti in cerca di indumenti da indossare; dietro l’anta a specchio c’è la sua collezione di maschere, basta scegliere quella più adatta al-l’occasione o allo stato d’animo: ci sono le due di carnevale, Spiderman e Batman, quella per le festività natalizie e altre. A volte vorrebbe calzare quella dell’indifferenza per essere total-mente impermeabile ai dolori; oppure dell’opportunista per essere sempre all’altezza; c’è quella da finto buonista che va tanto di moda, da arrivista. Gli sta a pennello quella da narciso egocentrico, che qualche volta tiene indosso, ma solamente quando sta da solo, che nessuno lo veda, si vergogna. Nella collezione c’è anche quella da balordo indagatore a cui piace intuire se dietro lenti scure di occhiali firmati si possano celare occhi sinceri o qualcosa di sinistro. C’è anche quella da stronzo fottuto, riservata a situazioni eccezionali o a persone partico-larmente ‘meritevoli’!
Non gli va di scegliere. Terrà quella che ha sempre sulla fac-cia, quella che lo fa essere trasparente e accomodante, che lo fa sentire a suo agio con se stesso quando si guarda allo specchio o si confronta con altri. Dal fondo del cassetto, però, ne sfila una che mette in tasca: quella da indiano con i colori di guerra, serve sempre. L’ha usata tante volte per aggredire malamente la vita che lo ha sempre domato, da cui ha imparato a essere più umano e umile. L’ultima volta, l’ha calzata per difendere ciò che il suo cuore ferito gli dettava: ha versato fiumi di parole…paro-le…parole inutili, tentando di affermare, implorando, il suo amore all’ultima donna che ha desiderato come compagna di vita, ma che, sorda alle suppliche, non ha ascoltato: non amava più lui. Amara delusione. Lotta ancora e sempre per ciò a cui tiene, per quello che sente essere veramente importante: la maschera da indiano sempre in tasca.
Quando è solo si rifugia in riva al mare, libero da inutili tra-vestimenti: basta solamente il suo viso abbronzato di ingenuità, i suoi occhi trasparenti che riflettono quel pezzo di orizzonte, la sua leggerezza per trasformarsi, diventare anche lui, grano di sabbia nella battigia, sale nell’acqua, o profumo di salmastro.
Oppure raggiunge la cima di una montagna, dove c’è solo spa-zio a perdita d’occhio, dove la fatica non arresta la sua fervida
fantasia che lo fa sentire roccia tra le rocce, fiore di montagna tra i sassi, molecola d’aria nel vento.