Quasi tutti gli studenti conoscono la novella del Decameron di Boccaccio su Federigo degli Alberighi. Ma pochi sanno la vera storia, narrata in una anonima Cronaca trecentesca. Racconta infatti la Cronaca che il giovane Federico apparteneva ad una nobile famiglia fiorentina. Non era illetterato, era bello e aitante, frequentava la crema della società ed era l’unico erede di una consistente fortuna. Si innamorò perdutamente di una bella fanciulla, monna Giovanna, che però era sposata con un uomo più anziano di lei e aveva un bambino. Quando mai il fatto che una donna sia sposata ha impedito ad un innamorato di corteggiarla? Federico cercò in tutti i modi leciti di ottenere le grazie di monna Giovanna: né lettere, né regali servirono. La donna era una torre inespugnabile, quali che fossero le ragioni del suo rifiuto. Fu così che il giovane, non avendo ascoltato i saggi consigli dei pochi amici veri, dilapidò il suo patrimonio. Dovette rinunciare a tutti i suoi beni per pagare i debiti e si ridusse a vivere in una casetta a qualche miglio dalla città, ospitato da Masetto, il contadino che aveva fino ad allora coltivato un podere degli Alberighi. Di tutta la ricchezza precedente non rimaneva nulla, salvo un cavallo e un falcone. Il cavallo fu venduto in cambio di un asinello e di denaro sonante, mentre il falcone era ormai l’ultimo segno del passato benessere. Federico era abbattuto: si rendeva finalmente conto che era stato un coglione, però era ormai tardi per tornare indietro. Si era già infilato un cappio al collo per impiccarsi ad un albero, quando giunse alle sue spalle Masetto, che tagliò la fune, gli diede un ceffone e aspettò le sue reazioni. L’uomo aveva ampiamente passato i sessanta e dalla vita aveva imparato le cose essenziali. Il giovane per un buon momento rimase muto, senza sapere come reagire, poi cominciò a piangere silenziosamente, accasciato a terra
– Perché non mi hai lasciato morire? – domandò.
– Nessuno ha il diritto di togliersi la vita come stavi per fare tu. Non sei malato, non sei stupido, hai solo perso le ricchezze che hai ereditato e che non sei stato capace di amministrare. Se vuoi, ti dirò che cosa fare per vivere meglio e per non vergognarti di te stesso. Sei giovane ed io ti voglio aiutare come se fossi mio figlio…- rispose Masetto.
– Ma come mi puoi aiutare? Mi puoi restituire le mie ricchezze? Il mio palazzo di Firenze? Il mio palafreno? –
– No. Nulla di ciò. Ti insegnerò a lavorare la terra e ad allevare pecore, capre e galline. Ne ricaverai quanto ti basta per vivere e per guadagnare. Capirai che cosa vuol dire faticare e sudare, senza essere un parassita come nella tua vita
precedente. –
Federico fu colpito dalle sagge parole di Masetto e accettò di farsi garzone del suo servo per imparare ciò che era necessario per coltivare la terra e allevare piccoli animali. Solo ogni tanto andava ancora a caccia con il suo falcone, finché capì che anche la caccia, uno dei passatempi preferiti dai nobili, era una crudeltà: da quando aveva preso gusto a stare in mezzo ai capretti e agli agnelli, da quando li aveva visti nascere, aveva tenuto in mano dei pulcini, capiva che non poteva più uccidere con la balestra o catturare con il falcone dei poveri uccelli. E pazienza se sulla sua mensa la carne compariva solo quando uno dei suoi animali moriva per cause naturali o per l’aggressione di un lupo. Passarono alcuni anni. Federico era cambiato: dimenticata la sua vita precedente da giovane viziato, aveva imparato un mestiere e, grazie ad una sana fatica, prosperava: l’asinello serviva a portare in città il frutto del suo lavoro e a venderlo al mercato. Qualcuno dei suoi vecchi compagni di bagordi lo aveva riconosciuto e lo aveva preso in giro per quella sua condizione di villico, ma Federico gli aveva riso in faccia, senza vergognarsi di essere un contadino con i calli sulle mani e la faccia abbronzata dal sole. Era anzi lieto della sua nuova vita e considerava Masetto un padre, oltre che un maestro: da lui aveva imparato tutto ciò che ora gli permetteva di vivere serenamente. Passò ancora un anno e un’epidemia si portò via il marito di Giovanna, che rimase sola con il figlioletto. Quell’estate Giovanna andò a villeggiare nel paese vicino e, inevitabilmente, Federico la incontrò al mercato: fu un ritorno di fiamma per lui, mentre Giovanna rimase ancora fredda. La sua vedovanza era recente e lei non voleva dare adito a maldicenze. Poco tempo dopo, una domenica, durante una passeggiata in campagna, Giovanna e il figlio incontrarono Federico a spasso con il falcone e il bambino si innamorò del bellissimo rapace. Proprio in quei giorni il giovane portò a termine la sua
conversione al rispetto degli animali e decise di liberare il falcone: fu una decisione sofferta, ma era convinto che anche il rapace avesse diritto alla libertà e a cercare una compagna. L’uccello lanciò il suo strido verso il padrone, che pure amava, e prese il volo verso la sua nuova vita. Così Federico era felice per il falcone, malinconico per aver perso l’unico essere – a parte Masetto – che gli voleva bene. Quando Giovanna gli chiese come una grazia particolare il rapace in regalo per il figlio malato, Federico rispose con dispiacere che la cosa non era possibile, poiché al falcone aveva restituito la libertà. Giovanna ne fu dispiaciuta, ma sapeva che non era cattiva volontà da parte del giovane. Suo figlio morì – come succedeva spesso in quell’epoca – e Giovanna pensò di rimaritarsi, poiché era ancora giovane. Superate le riserve dei fratelli per la sua decisione, Giovanna avrebbe voluto sposare Federico, ma aveva fatto i conti senza l’oste: il giovane aveva conosciuto una ragazza del posto, piacente senza essere bellissima, ignorante delle buone maniere borghesi, instancabile nei lavori della campagna. Era stato amore a prima vista tra i due, per cui Federico, quando seppe da un sensale di matrimoni del desiderio di Giovanna, non poté fare altro che mandarle a dire che era troppo tardi per loro due.
LORENZO PESCE, “Federigo degli Alberighi”
Titolo del libro pubblicato con L.A.: “Martino da Mesnil”