Le pietre preziose nella notte non si vedono.
La piazza è vuota. Davanti a me il vecchio teatro. Le due colonne e il grande portone in legno. Salgo i tre scalini lentamente. Mi volto a guardare il sole basso che illumina appena quel piccolo centro.
Un uomo vestito elegante mi viene incontro:
– Benvenuto Andrea.
Allunga il braccio indicandomi la strada. Poi sorride chinando il capo.
Arrivo dietro il palcoscenico. Strutture in ferro e corde che scendono. Travi colorate appoggiate malamente al perimetro. Persone indaffarate che sbuffano. Strumenti che si accordano.
Poi le grandi luci illuminano il palco, e il resto diventa tenebre.
Immobile sul fianco del palco, sfioro il lungo telo che mi separa dalla linea bianca disegnata in terra. Tra poco tocca a me!
L’orrore della paura mi divora. Il canto improvviso di questo dramma si insinua feroce nelle mie carni. Il panico dentro di me si contorce nello stomaco, come aggrovigliate serpi in amore.
I passi ritmati dei ballerini sul legno mi scuotono. Vedo filtrare luci. Gli applausi vibrano. Di tanto in tanto qualche fischio dal pubblico, come mosche fastidiose in un autunno. Tra poco tocca a me! L’ansia mi brucia. Con il dito allento il maglione, la camicia. Sono confuso, ho la testa avvolta in una nebbia. Il caldo dei riflettori sul palco mi investe a tratti. Questa merda è durata poco! Sul fianco mi passa qualcuno. L’odore del borotalco mi porta lontano. Chiudo gli occhi: ero bambino. Mia madre, la pubblicità. Le frasi non dette. Il tempo perso e dimenticato. I suoni arrivano oramai distanti, mi volto e non comprendo. Un vento lieve accarezza il volto. Mi da sollievo. Non so da dove arriva. Apro gli occhi; il buio dietro le spalle mi fa paura. Riguardo il palco, le luci. Richiudo gli occhi e il tempo si ferma! Immagino fiumi che scendono violenti dalla montagna a portare via ricordi. Le camminate tra i boschi. L’echeggiare di mille uccelli che sovrastano la mia solitudine quasi a fargli festa. Non sento la paura tra quei boschi. Un paese lontano sembra spento. Sorrido in una strada di città, leggo un libro su una panchina. È presto, poca gente. L’aria quasi ha sapore e mi riempie.
La memoria delle cose belle ha poche luci. Con gli occhi chiusi il tempo si ferma. La musica, mille note di jazz, classica, pop si ripetono. Non annoiano. Come sogni belli. Il buio alle mie spalle lo sento pesare sulla schiena. Non apro gli occhi, non mi giro! Non voglio andar di fretta su questo palcoscenico. Tra poco tocca a me cazzo! Sono sudato. Tengo serrati gli occhi. Il tempo non passa! Dopo i ricordi belli le lacrime mi sfidano. Ho un nodo tremendo alla gola…mi dà fastidio. Amori che intasano la mente si fanno spazio, come persone inferocite su l’ultimo banco di frutta. Mi assillano vogliono il loro posto. Gli amori che hanno vissuto, quelli che sono andati lontani, quelli che sperano ancora, quelli che si scontrano. Non c’è spazio per tutti. Mi manca il fiato. Compagni di viaggio morti, mi passano sul fianco come fantasmi con il loro sorriso immobile come un logo di vita non vissuta. Stringo tra le mani il telone con gli occhi ben stretti il tempo non passa. Rivedo tutto in quello spazio immobile, dipinto su un muro come un affresco. Sorrisi, lacrime vorrei stringere tutti accarezzarli non deluderli. Perché sono tanti? Dove sono stati in quel tempo? Dov’ero io in quei piccoli istanti? Il tempo non passa con i miei occhi chiusi! La vedo lontana tra la folla che mi saluta ma è lontana. Vorrei muovermi ma l’immagine di me la sento sbiadire. Alzo il braccio.
– Non tocca a lei. Aspetti! Sento gridare. Apro gli occhi un secondo poi le richiudo.
Rincontro carnefici arroganti sfilare altezzosi: quanti ne ho visti! Furibondi arcieri a cavallo, lanciare frecce di egoismo. Mi riconosco tra loro scolorito dal tempo. Stronzi vestiti a festa, fare ordini di profumate spezie per concedersi all’umanità. Dalle scogliere, acerbi volti curiosi con gli occhi socchiusi a dettare leggi contro l’impero della volontà. Sciamani sporcarsi le labbra di sentori apocalittici. Alzando i calici di vino, crollano in terra ubriachi di gloria. Giullari sorridenti persi in un mondo che fa sghignazzare. Si impongono come unici eredi al trono di questa farsa. Con gli occhi chiusi il tempo non passa!
Incomprensibili doni di una vigilia, che vomita una ipocrisia delirante. Un amore che barcolla senza fiato, si lascia andare sfinito su un marciapiede lercio. Mentre gli passo al fianco indifferente. Con la mano scruto la pelle tesa del mio cranio vecchio avvizzito mentre piccole squame di pelle mi abbandonano. Giornalisti sgridati e umiliati da un sistema che ha perso la bussola arrabattandosi in una pentola vuota.
Poeti stanchi delusi dalle loro grida posano la penna nel calamaio,
si alzano e guardano verso l’orizzonte, eserciti di bugie in fila indiana.
Trovarsi un giorno a sottovalutare il sesso, padrone imperturbabile di ogni evento. Principe padrone di una commedia che lascia ai poveri e ai ricchi una padellata di sassi a cuocere. Baraonde di barboni trasandati si allontanano sereni.
Non volermene amore se questa maschera anch’io non l’ho mai buttata. Preso dall’entusiasmo che quel nuovo giorno fosse diverso. Ritrovandomi con fotocopie bianche tra le mani. Con gli occhi chiusi il tempo non passa!
Sento la mia maschera di cera perdere consistenza sul mio volto. La sfioro, si scioglie lentamente. Apro gli occhi, ho le mani strette nel telo e le guardo. Il tempo non è passato. Le ballerine sono ancora lì che ballano su quel legno rigato dal tempo, dai salti, dalle corse che non hanno un senso. Mi giro, ma il buio mi invade. Mi sembra di precipitare dalla vetta sul palco. Ma mi reggo a quel telone che sventola in alto. Mi dà le vertigini. Rumori, luci musica e quasi ora. I ballerini saltando escono di scena. Non sento più niente. Ci siamo! La musica si ferma. E’ tutto buio. La piccola luce verde di fronte a me si illumina. Lascio il telone. Tocca a me! Seguo la riga bianca lentamente. Sono davanti al pubblico in silenzio. Il faro si accende, il suo calore mi scioglie quella poca cera rimasta della maschera. Le mani si uniscono sulle guance portando via quell’impiastro dal mio volto. Eterno destino o eterna scelta, senza risposta. Maledicendoli entrambi al termine di un cammino dove trascino le gambe su questo legno graffiato da mille salti, da mille amori da mille inutili drammi. Abbandonarmi e ubriacarmi di verità mascherate da bugie e da bugie mascherate da verità. Al termine mi sembrano identiche.
Davanti ad uno strano pubblico mi inchino.
“OCCHI CHIUSI” di Giuseppe Vassallo
“I racconti di un apprendista” pubblicato nel 2019 da Letteratura Alternativa