Mirando il mare, da sotto le scarne fronde di un ulivo secolare, in un giorno qualunque di una storia intessuta soltanto più nella miopia della celebrazione di se stessa, Pudore sorride all’avvicinarsi di Fama e le chiede di sedersi, accanto a Lei, sulla stessa stuoia fatta di cilindriche canne essiccate all’aria e forgiate dalla luce del sole e dal bagliore della luna.
Fama rimane in piedi, troneggiante.
Sembra un incontro casuale, ma così non è. Come non è, da entrambe le parti, un inconsapevole scambio di emozioni e di slanci conviviali, tali da ricreare una nuova alleanza. La perspicacia delle due figure e la loro esperienza, le rendono coscienti di essere sul bordo di un abisso, indicibile all’esperienza, inverosimile all’intelligenza e alla vita. Una voragine pronta ad ingoiare qualunque forma di sospensione e dolcezza proprie dell’animo e del cuore dell’uomo.
Per Fama occorre un sacrificio: la preda è Pudore.
Fama elogia se stessa. Così espone la necessità del suo esserci, del bisogno conclamato della visibilità, del potere, della gratificazione; tutte qualità delle quali è pregna e sulle quali ha lastricato strade luccicanti e riconoscimenti immediati a chiunque si renda docile, meglio servo, delle sue lusinghe, anche senza saperlo. I poteri forti sono con Lei e Lei è certamente l’eletta per garantire credibilità ad un sistema che premia i migliori, i più spavaldi, gli affamati della sua sostanza.
Quello che Fama omette di dire, alterando di un nonnulla la sua seduzione, è che anch’Ella non è regina, ma ancella; rimane un effetto anziché la causa; certamente è sempre un grande dono per l’umano, ma un dono effimero per il singolo e dannatamente illusorio per la specie dalla quale quel singolo deriva. Soprattutto, Ella omette di dire che il gran Dio che l’ha forgiata, richiede, se amata, l’esilio dell’anima.
A tale magnificenza d’elogio, Pudore sorride, anche se dentro di sé sa benissimo che c’è assai poco da ridere. Il suo sguardo si posa lontano, non sull’orizzonte dove una linea impercettibile unisce l’alto con il basso, ma nel ventre delle origini. Un grande forno capace di sfornare quel cibo nutriente che alimenta la vita, che fa amare i piccoli gesti, le azioni senza clamore, gli amori delicati nella penombra degli affetti più intimi; una fucina che riconnette le storie tra di loro, le intesse avendo cura e sensibilità delle loro somiglianze, le trasporta verso una sorgente che gorgoglia di acqua cristallina e non contaminata.
Altro non dice… Pudore. Ma che dovrebbe enunciare. Il suo parlare è delicato e si rivolge a tutto ciò che risuona di intimità. La terra dalla quale giungono i suoi sussurri è semplicemente divenuta obsoleta, fuori mercato; non è Lei – Pudore è presenza femminile – che deve morire, siamo noi che dobbiamo scegliere se darle ancora ascolto, tenerla in vita e presente nel nostro vivere.
E’ ancora possibile scegliere?
Se quando ci guardiamo negli occhi, vediamo soltanto opportunità e risorse, non passerà molto che quell’ulivo, in prossimità del mare, sarà un ricordo di un tempo lento, dannatamente analogico, spudoratamente empatico, crudelmente imbalsamato. Alla sacra pianta frondosa, qualcosa di più moderno metterà radici e ci mostrerà l’avvenuta sovrapposizione di una nuova immagine del mondo.
Anche se tutto pare intendere che Fama divorerà, con il suo immane appetito, ogni rallentamento, parteggio per Pudore e mi stringo, come essere umano, al dono della riservatezza e del rispetto.
Perché?
Perché ho ancora bisogno di riposare, di pensare, di amare, di gioire senza far troppo rumore.
La dilatazione dello spazio e del tempo, momenti nei quali con piacere, ogni tanto, ho necessità di immergermi, sono ancora opzioni che vorrei continuare a considerare come mie libere scelte.Marco Zaccarelli “La Liberazione della Farfalla” – Settembre 2020 – LA Edizioni