“Anima vuota” di Riccardo Fassone - Letteratura Alternativa

“Anima vuota” di Riccardo Fassone

Chiusi a chiave la porta di casa e decisi di camminare sino al bar nel West Village. Ero stanco di cercare di sistemare l’appartamento preso a Soho in Lafayette St. Continuavo ad aprire pacchi arrivati dall’Italia e a rivedere pezzi di un passato che non mi apparteneva più. Neppure i vestiti sembravano essere i miei. Avevo indossato un jeans e un maglione nero, un cappotto color cammello sino al ginocchio con una sciarpa scura molto ampia. Anche i colori mi annoiavano. La mascherina della Burberry era perfetta con le tonalità del check tradizionale. La barba avrebbe preso una piega imperfetta sotto la stoffa, ma era l’unica cosa di cui non volevo sbarazzarmi in tutti i cambiamenti di quel mese. L’ultimo investimento mi aveva consentito di mettere da parte i soldi sufficienti per scappare almeno per un anno. Scappare o forse ricostruire quella parte dell’anima che avevo sotterrato. In fondo non lasciavo nulla indietro. Solo oggetti che mi avrebbero inseguito anche a New York. Orpelli di quello che ero. Rappresentazione di quello che siamo per apparire al mondo. Il bar era quasi deserto. Entrai salutando e prendendo posto ad un tavolo rotondo di legno al centro della sala. Appoggiai la mascherina, infilando una mano nella barba per darle volume e sfilai lentamente il cappotto guardandomi attorno. C’era poca gente e si respirava aria di solitudine. La stessa che avevo portato entrando nel locale. Ordinai un Martini Cocktail, con dry vermut. Tradizionale e forse banale, ma avevo scelto per quella notte di essere anonimo. Entrò un uomo sbattendo la porta. Avrà avuto trent’anni. Lineamenti squadrati, occhi scuri e profondi. Si sedette poco distante da me. Per un attimo i nostri sguardi si incrociarono. Forse mi salutò anche se il suono della sua voce si oscurò nella mascherina e si mischiò alla musica che la barista accese in quel momento. Eravamo l’uno innanzi all’altro. Divisi solo dai tavoli. Separati dai nostri cocktail. Soli e persi nelle reciproche domande. “Ticchettio di lancette, cuori metallici con ingranaggi di plastica riciclata. Boccheggio guardando la superfice dell’acqua. E affondo.
Selvaggiamente muovendo le braccia con rotazioni ritmiche. Non sono più” Improvvisamente mi ridestai dai miei pensieri più bui. Indietreggiai con la sedia facendo un rumore imbarazzante. Quasi impaurito. Scomposto nella mia costruita perfezione. Lui mi guardò. Stupito. Bello? Si, bello e forse abbandonato anche lui in sé stesso. Voleva dirmi qualcosa? Non lo saprò mai perché, nell’istante in cui lo pensai, il mio profumo era già lontano dal bar. Camminai velocemente stringendo la sciarpa al mio collo. Non mi importava la strada percorsa. Arrivai al Washington Square Park. La notte era intensa. Quasi velata. Dipinta nel mio vagare. Ero la tela di un artista inconcludente. Lasciai cadere la mascherina griffata. Sfilai il cappotto, sentendolo scivolare a terra, sfiorando la schiena e le mie braccia. Allentai il nodo della sciarpa che immaginai per un attimo volare via spinta dal vento. Dalla tasca del jeans estrassi una provetta di polvere bianca. Un albero sarebbe stato il trono di un impero decaduto. Avrei urlato al mondo di essere l’unico re di quell’istante. Sentii la corteggia sfregare sul maglione di cashmere. L’aria fredda. Ritornare a tutto quello che avevo lasciato alle spalle. Respirare asciugando una lacrima. Versare una striscia e voltare lo sguardo verso un punto lontano nel buio. Sapere di non aver forze e risorse per resistere. Quei cento dollari arrotolati. Chiusi gli occhi. Per una frazione di secondo non ero più in nessun luogo. Ero dove dovevo essere. Nel nulla e non sentivo. Percepii però il suo respiro. Vicino al mio orecchio, lungo il mio collo. Affannato ed incazzato. Con un gesto neve cadde sulle mie scarpe. Ero stupito. Nel mio nulla non c’era posto. Eppure lo aveva occupato con decisione. Anche il gesto di porgermi il cappotto e aiutarmi ad alzarmi non aveva senso. Quel sorriso prima di coprirsi la bocca con la mascherina. Camminammo fino al Whitney Museum e poi lungo l’Hudson. Parlammo di superficialità e con leggerezza. Ci fermammo ad osservare un battello. Sentii l’aria fredda accarezzarmi il volto. Pungente e vera come l’esistenza sa essere. Il resto fu solo morte o forse vita.

“Anima vuota” di Riccardo Fassone
Autore di “Con le ali di Icaro” pubblicato nel 2020 da LA Edizioni

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